“The Harder They Fall” comincia proprio bene per chi ama il genere sanguinolento: un western di vendetta pieno di personaggi memorabili interpretati da attori altrettanto memorabili. Ogni scena e ogni momento sono messi in scena per una bellezza voluttuosa e una potenza cinetica. Jeymes Samuel, co-autore e regista del film, ha studiato le opere dei registi che emula.
È un peccato che questo film di Netflix sarà visto principalmente su dispositivi portatili, come smartphone e iPad, perché è stato chiaramente concepito per uno schermo grande come quello di un cinema. Samuel usa uno schermo molto ampio per inquadrature che impiegano molto spazio negativo e contengono strati di informazioni su cui bisogna concentrarsi per apprezzarle, e regala ai suoi attori momenti preziosi in cui i loro personaggi sono autorizzati ad ascoltarsi a vicenda, a guardarsi in silenzio e a riflettere sulla loro prossima mossa, spesso mentre sopportano la morte di nemici armati fino ai denti.
Gli appassionati di storia western sono avvertiti: molti dei personaggi principali della storia condividono gli stessi nomi di persone reali che hanno vissuto e sono morte nel vecchio West (Nat Love, Bass Reeves, Stagecoach Mary, Jim Beckwourth e Cherokee Bill) ma gli eventi a cui prendono parte in “The Harder They Fall” sono per lo più sciocchezze inventate. Hanno tanta relazione con la realtà quanto gli eventi di un western come “Il buono, il brutto e il cattivo” o un film di gangster come “Dillinger” e “Gli intoccabili“, i cui eventi principali sono così ridicoli che potrebbero anche aver avuto luogo su un altro pianeta o in una dimensione alternativa.
Ma questa è una caratteristica del film, non un difetto. L’intero progetto sembra un po’ uno scherzo o un’indulgenza, fino al punto in cui si toglie il sorriso presuntuoso dalla faccia, abbraccia gli aspetti melodrammatici della sua trama centrale e diventa una storia d’amore sincera, una tragedia familiare e una storia quasi mitologica su come la violenza genera altra violenza, sia che venga vissuta in un saloon, in strade polverose o nella privacy di una famiglia.
Un po’ di trama (con qualche spoiler)
Jonathan Majors, che è venuto fuori dal nulla qualche anno fa per diventare uno dei protagonisti più affidabili, interpreta Nat Love, prima raffigurato in flashback come un bambino terrorizzato la cui madre e il cui padre vengono uccisi dal fuorilegge. Rufus Buck (Idris Elba). Come regalo d’addio, Buck estrae il pugnale e incide un crocifisso sulla fronte del ragazzo. La cicatrice segna l’eroe del film in modo significativo come solo una cicatrice fatta ad un bambino può fare, per non parlare dei genitori uccisi in modo così brutale.
Da adulto, Nat diventa un temuto pistolero e fuorilegge, e si trova coinvolto in un’avventura e in una missione di vendetta contro l’uomo che ha ucciso i suoi genitori. Ci sono inseguimenti, scontri a fuoco su larga scala, acrobazie a cavallo e ancora inseguimenti, una rapina al treno, rapine in banca e un paio di risse corpo a corpo con pugni, piedi e armi di fortuna con coreografie di combattimento sfacciatamente moderne come si vedono in un film di Bond o Bourne. Ci sono anche numeri musicali e grandi scenografie dipinte in così tante tonalità varie e vibranti e con così tanti tocchi di modernità che a volte sembra di visitare un’installazione artistica su temi western. Una lotta all’ultimo sangue tra due personaggi in un fienile è preceduta da una passeggiata tra tessuti tinti in modo brillante appesi ai fili dei panni.
Samuel e il suo co-sceneggiatore Boaz Yakin spezzano la prima sezione del film in narrazioni speculari, ognuna delle quali riguarda le due bande criminali: quella di Nat e quella di Rufus. All’inizio della storia vera e propria, Rufus sta scontando una pena federale per una rapina in banca, ma viene liberato dal suo braccio destro Trudy (Regina King, che buca lo schermo nei panni di una sadica e sogghignante cattiva).
Trudy guida la banda di Rufus in un’azione di abbordaggio che prende il controllo di un treno controllato dalla Cavalleria degli Stati Uniti dove Rufus è tenuto dentro un caveau di ferro come se fosse un velociraptor (o Hannibal Lecter). Ci vuole un attore raro per giustificare l’accumulo che Samuel crea per Rufus: la faccia del personaggio non si vede nella sequenza di apertura. Ci vogliono 20 minuti perché sveli il suo volto solo dopo che Trudy ha preso il controllo del vagone-prigione e apre la porta del caveau. Ma Rufus non esce subito, fissiamo l’oscurità per un po’. Ma l’attesa vale il prezzo del biglietto e il personaggio, maestosamente cinico e sicuro di sé, di una tristezza fluttuante che ricorda L’Indio, l’antagonista di “Per un pugno di dollari”, la cui dipendenza dall’oppio intorpidisce la consapevolezza della propria mostruosità.
Finalmente libero, Rufus torna alla città nel deserto che gestiva, e trova il suo vecchio socio Wiley Escoe (Deon Cole) che domina il posto come se fosse il legittimo proprietario. Rufus lo prende a calci in culo, ma non lo uccide, ed è divertente vedere il personaggio tornare a strisciare nel film in vari frangenti, ad adescare, manipolare, fare il doppio gioco e fare qualsiasi altra cosa che sente di dover fare per andare avanti, per tornare in cima. La maggior parte dei personaggi, se non tutti, hanno un codice morale altrettanto auto-giustificante. Da notare che la costumista (Antoinette Messam) veste quasi tutti i personaggi con un cappello nero: non è solo un furbo cenno al casting non tradizionale del film, è un riconoscimento del fatto che quasi ogni attore di questa storia sarebbe descritto come l’antieroe o il cattivo se lo si rendesse protagonista del proprio progetto.
Samuel riempie lo schermo con personaggi la cui eccentricità, freddezza e psicologia stratificata sono trasmesse con tale economia che è solo quando si guarda indietro al film che ci si rende conto che hanno avuto solo pochi minuti delle oltre due ore di durata. Anche se le simpatie del film sono sempre per Nat, un ragazzo traumatizzato che impone la sua volontà virile su un universo ingiusto, per la maggior parte sembra più investito nell’idea che le persone sono complicate e contraddittorie, il che potrebbe essere il motivo per cui ritrae la lotta delle due bande per il possesso di bottini assortiti di rapine in banca non come una battaglia tra bene e male, ma un conflitto tra interessi commerciali concorrenti, in cui ogni parte cerca di ridefinire la volontà e l’appetito come giustizia.
I personaggi (con qualche spoiler!)
E poi c’è LaKeith Stanfield nel ruolo di Cherokee Bill, il cui prolifico record di uccisioni è sminuito dalle voci che affermano che spara ai suoi nemici nella schiena (e nel film dimostra che sono voci fondate). A sostegno di Nat, abbiamo Zazie Beetz come Stagecoach Mary (diligenza Mary), una pistolera che era l’amante di Nat e ne è ancora attratta. Danielle Deadwyler come Cuffee, una pistolera maschiaccio tipo Calamity Jane che si presenta come maschio e che non sa camminare con i tacchi. E quando è vestita da donna, con quel abito rosso così vistoso per la rapina nella banca dei bianchi, sembra più un ragazzino che una donna. RJ Cyler come Beckwourth, un pistolero che gira con la pistola e che è ossessionato dall’idea di uccidere Bill in una legittima gara di estrazione rapida ma muore stupidamente durante la preparazione di un duello perchè parla troppo. Il cowboy Bill Pickett (Edi Gathegi), che come afferma Morgan Freeman in “Gli spietati”, potrebbe colpire un uccello negli occhi.
Il regista punta su una sensazione da sogno/incubo lirico, creando (come Sergio Leone prima di lui) una versione parallela e alternativa del West americano in cui i colpi di pistola riverberano come palle di cannone, e gli scontri a fuoco diventano così acrobatici da sembrare un’estensione delle arti marziali.
Il razzismo, il genocidio e l’arroganza esistono nell’universo di questo film e hanno un impatto sulla vita delle persone non bianche (un personaggio nero rivela una cicatrice sul collo che indica che è sopravvissuto a un linciaggio), ma non al punto che non possano possedere bar, nightclub e banche, gestire città fiorenti e vagare per la frontiera con presuntuosa sicurezza in gruppi armati (proprio come facevano i pistoleri bianchi) senza dover temere persecuzioni o annientamento in qualsiasi momento.
Se c’è un lato negativo, è che Samuel a volte si innamora così tanto della presentazione della violenza (e dell’accumulo di violenza) che i personaggi si trasformano in figurine d’azione.
Ma anche i passi falsi qui sono controbilanciati da scelte apparentemente fuori dal mondo che ti fanno ridere per la loro audacia, poi sospirare per la loro giustezza, come il modo in cui sia Rufus che Nat spesso fischiettano o cantano melodie che appaiono anche nella colonna sonora o nelle canzoni di Samuel, facendo sembrare il film come se fosse costantemente sul punto di trasformarsi in un musical western.
Il film riesce come puro spettacolo, trasformando la luce, il colore e il movimento in fonti di piacere. In un’epoca di cinema d’azione sempre più sciatto, è un sollievo trovarsi nelle mani di un regista che sa cosa fare con la macchina da presa. Samuel porta la sensibilità di un interprete musicale nella messa in scena dei grandi momenti. Lui e i direttori della fotografia (Mihai Mălaimare, Jr. e Sean Bobbitt) cambiano angolazioni o spostano la messa a fuoco per creare risate o sussulti; si aggrappano a immagini sorprendenti per creare oggetti di bellezza autonomi (come la vista dall’alto di un cecchino di un bersaglio o una vista dall’alto di uomini armati con ombre molto lunghe che si confrontano in una strada), e mettono da parte le leggi della natura per far sì che il film faccia ciò che deve fare per produrre una certa sensazione. Notate come, nella resa dei conti finale, il sole è dappertutto, eppure sempre dove deve essere per creare un’immagine iconica del western, adatta all’inquadratura.
Quindi non vi resta altro che correre su Netflix o attivare un abbonamento di prova per godervi, tutto d’un fiato “The Harder They Fall” .
fonte: rogerebert.com