Il 7 maggio ricorre l’anniversario della battaglia di Dien Bien Phu. Un esercito di straccioni, nel 1954,sconfigge l’esercito francese in Indocina gettando le basi per la successiva disfatta degli americani in Vietnam. I due eserciti, quello francese e in seguito quello statunitense, nonostante fossero meglio equipaggiati e pesantemente armati si dovettero piegare alla forza di un’idea: sconfiggere e cacciare il nemico invasore creando una nazione indipendente.
Circa vent’anni fa ci occupammo della guerra del Vietnam e analizzammo come gli Stati Uniti rimasero invischiati in quella guerra. Fu oggetto di una tesi di laurea e successivamente di una tesi di dottorato in Relazioni Internazionali. Per festeggiare quel 7 maggio, quella vittoria, quella sconfitta e quella tesi ecco un estratto di quella pubblicazione.
La tigre francese
Durante la Seconda guerra mondiale (1939-1945) l’État Français o Repubblica di Vichy sotto forti pressioni tedesche, aveva consentito ai giapponesi, che avanzavano dalla Cina, una crescente presenza nella penisola indocinese. I nipponici, come un rullo compressore, cacciarono gli europei dai loro possedimenti. Anche gli Stati Uniti dovettero piegarsi e abbandonare le Filippine. Una nazione asiatica aveva piegato il colonialismo europeo. I nazionalisti locali di tutto il Sud-est asiatico guardavano al Giappone come una nuova guida che avrebbe potuto scacciare gli europei e favorire la nascita di nazioni indipendenti. Solo Ho chi Minh, vietnamita, temeva il lupo giapponese più della tigre francese. Per questo motivo collaborò con gli alleati prevedendo che il paese del Sol Levante sarebbe stato sconfitto, che i francesi sarebbero stati cacciati dall’Oriente e il Vietnam sarebbe stato ricompensato con l’indipendenza.
Ho chi Minh aveva visto giusto. Fu a lui che, al termine delle operazioni belliche, il comandante delle forze giapponesi in Indocina, presentò la resa. Il 2 settembre 1945 Ho chi Minh proclamò l’indipendenza del Vietnam, nella quale furono letti alcuni passaggi della nuova Costituzione che, in alcuni tratti, scimmiottava quella degli Stati Uniti. Quel giorno aerei da guerra nordamericani volarono sopra la città, incaricati dell’esercito statunitense erano sul palco delle autorità ed una banda vietnamita suonò l’inno nazionale americano. Sul finire della cerimonia d’indipendenza, il generale Vo Nguyen Giap definì le relazioni con gli Stati Uniti «particolarmente intime».
Tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, Ho chi Minh scrisse otto lettere al presidente Harry Truman e al Dipartimento di Stato denunciando le mire revansciste dei francesi desiderosi di rioccupare l’ex colonia. Le lettere avrebbero dovuto stimolare la vocazione anticolonialista e democratica della classe dirigente americana. Il neo-governo vietnamita chiese anche l’appoggio delle Nazioni Unite e portò ad esempio l’esperienza delle Filippine. Denunciò il colonialismo francese come collaborazionista del fascismo nipponico, pose l’accento su com’era stata redatta la dichiarazione d’indipendenza vietnamita e compilò un elenco delle riforme democratiche che il governo aveva già portato a termine: elezioni popolari, abolizione del sistema fiscale coloniale, diffusione dell’istruzione e ripresa delle attività economiche.
Gli Stati Uniti erano contrari al ritorno della Francia in Indocina, ma erano ugualmente contrari alla crescita del nazionalismo in Vietnam. Temevano che il tentativo francese di riguadagnare le proprie colonie avrebbe provocato una guerra lunga e sanguinosa. Tutto ciò in un’area troppo importante, strategicamente ed economicamente.
Franklin Delano Roosevelt sosteneva che la Francia, in cento anni di controllo coloniale, aveva ridotto il paese in condizioni estreme. Dall’alto del suo moralismo Roosevelt sosteneva che il popolo indocinese avesse diritto a qualcosa di meglio. Ma si era in guerra e in quegli anni si era tutti amici. Esistevano solo gli alleati che combattevano contro i nazisti. Quando il secondo conflitto mondiale finì gli Stati Uniti mantennero una distante neutralità verso la Francia e le sue mire coloniali. L’amministrazione Truman non voleva passare alla storia per aver sostenuto il ritorno del colonialismo anche se autorizzò un “indiretto” aiuto finanziario e militare. Navi furono prestate alla Francia secondo i termini dell’affitto di guerra, aerei statunitensi trasportarono soldati francesi in Vietnam, e gli Stati Uniti estesero crediti per l’acquisto di mezzi di trasporto. Washington rifornì di armi l’esercito nazionale francese per uso interno, ma che, di fatto, erano impiegate in Indocina.
La guerra d’Indocina
L’annuncio alla metà del 1947 della strategia del contenimento e del Piano Marshall sottolineava l’indispensabilità della Francia al progetto di politica estera di più ampio respiro dell’amministrazione Truman. Ambedue le iniziative furono concepite come parte integrante della strategia generale dell’amministrazione per contenere l’influenza sovietica e favorire il recupero economico e la stabilità politica dell’Europa Occidentale. Nell’intensificarsi della Guerra Fredda, tra Stati Uniti e Unione Sovietica, nessun’area era più vitale dell’Europa Occidentale e nessun paese più cruciale della Francia. L’amministrazione di Washington scelse il male minore: i francesi sarebbero tornati in Indocina.
Ho chi Minh che contava sugli Stati Uniti si ritrovò isolato. I francesi stavano tornando, l’Unione Sovietica benchè sollecitata non aveva inviato nemmeno un agente ad Hanoi e non aveva riconosciuto il nuovo stato. Sul fronte occidentale il leader vietnamita non poteva contare sull’aiuto del Partito Comunista Francese, il cui capo, Maurice Thorez, allora vicepresidente del governo De Gaulle, aveva affermato che non intendeva «liquidare la posizione francese in Indocina».
In queste condizioni l’unica scelta di Ho chi Minh fu di accettare il ritorno dei francesi, a condizione che riconoscessero l’indipendenza del Vietnam. E per favorire questo nuovo corso, all’inizio del 1946, Ho chi Minh affermò di ammirare la Francia e di non voler di sciogliere il legame dei «nostri due popoli». Questa apertura favorì gli incontri tra il leader Vietminh e Jean Sainteny, rappresentante di De Gaulle. Il 6 marzo 1946 si firmò un accordo, secondo il quale la Francia riconosceva il Vietnam libero all’interno dell’Unione Francese, il nuovo nome con cui s’indicava il vecchio impero coloniale, che comprendeva lo stesso Vietnam, la Cambogia ed il Laos. Ho chi Minh si era piegato e accettava la presenza di 25mila soldati francesi per i cinque anni successivi. Infine, l’intesa doveva essere ratificata da un referendum da tenersi a data da destinarsi. In questo modo la Francia si assicurava il controllo sulla regione indocinese, in contrasto con il nazionalismo Vietminh. Ma le diversità di interpretazione dell’accordo non tardarono a rivelarsi. Alla Conferenza di Dalat nel maggio 1946 fu chiaro alle delegazioni indocinesi che il governo francese non intendeva andare al di là di una relativa autonomia, mantenendo per sé il controllo di economia, difesa e politica estera dei tre Stati facenti parte dell’Unione. Mentre le altre rappresentanze politiche accettarono i termini, il Vietminh puntò i piedi. Il risultato fu la necessità di organizzare una serie di colloqui, dal luglio al settembre 1946, a Fontainebleau, in Francia, tra il leader vietnamita e Bidault, rappresentante del governo francese.
Ma appena Ho chi Minh lasciò il Vietnam per la Francia, l’ammiraglio d’Argenlieu, Alto Commissario francese in Indocina, violò gli accordi di marzo e senza informare Parigi proclamò la Repubblica della Cocincina con capitale Saigon in modo da contrastare la Repubblica democratica del Vietnam proclamata nel 1945. Quando Ho chi Minh tornò in patria, il 21 ottobre, trovò nel partito una crescente opposizione verso la sua politica conciliatrice che aveva portato i francesi a consolidare le posizioni. Durante la sua assenza Vo Nguyen Giap, comandante delle forze Vietminh, aveva intensificato la guerra di guerriglia nel sud dando vita ad un vasto esercito portandolo dai 60mila regolari a 100mila soldati inglobando in esso anche reparti provenienti dai diversi gruppi giovanili paramilitari. Ho chi Minh continuò ad esortare per la moderazione per collaborare con i francesi e ordinò a Giap di ridurre le operazioni di guerriglia nel Sud.
L’otto novembre l’Assemblea Nazionale riunita a Hanoi approvò una nuova costituzione. Si trattava di un documento moderato, con cui si cercava di guadagnare e aumentare il sostegno di altri gruppi politici non comunisti. Il documento affermava in modo chiaro l’unicità e l’indivisibilità del Vietnam e, sebbene prevedesse un’associazione con l’Unione Francese, la costituzione concludeva che la Repubblica Democratica del Vietnam non era subordinata alla Francia.
Nel dicembre dello stesso anno a Hanoi vi fu un attentato, organizzato da alcuni reparti Vietminh, contro esponenti della borghesia francese; la risposta fu una pesante risposta delle truppe regolari francesi. Rapidamente la situazione deteriorò. Le truppe regolari inviate da Parigi controllavano le città mentre il Vietminh controllava villaggi e montagne, sulle quali si era ritirato e attestato: la guerra di guerriglia era cominciata portando con sé un triste presagio.
Finalmente nel gennaio 1950, accogliendo un appello lanciato da Hanoi, i paesi del blocco sovietico risposero in modo compatto riconoscendo lo Stato dei Vietminh. La neonata Repubblica popolare cinese offrì, al regime di Ho chi Minh, il suo appoggio nella lotta di liberazione nazionale, una decisione presa da Mao tse-Tung due giorni dopo l’invasione della Corea del Sud dei nord-coreani. Secondo i dirigenti cinesi, il loro sostegno ai Vietminh rivestiva un significato mondiale: se la lotta di liberazione nazionale vietnamita fosse fallita, avrebbe causato difficoltà alla loro stessa rivoluzione. Il progetto cinese di invadere Taiwan aveva già subito una battuta d’arresto proprio a causa della guerra coreana.
Dien bien Phu
La guerra di guerriglia si trascinò fino al febbraio 1954. Le forze francesi erano impegnate in una lotta di cui non avevano alcuna esperienza. Henry Kissinger scrisse, in l’Arte della Diplomazia, che «la guerra convenzionale ruota attorno al controllo del territorio, il problema della guerriglia è la sicurezza della popolazione: i guerriglieri non sono legati alla difesa di un territorio particolare, sono in condizione di determinare il campo di battaglia e di regolare le perdite di entrambe le parti. I guerriglieri possono vincere finché riescono ad evitare di perdere; l’esercito regolare perderà se non otterrà una vittoria decisiva. Qualsiasi paese coinvolto nella lotta alla guerriglia deve prepararsi ad un lungo impegno contro un nemico che, con la tattica del “mordi e fuggi”, può resistere a lungo anche con forze limitate».
La guerra dei francesi in Vietnam trovò il punto culminante presso un incrocio stradale chiamato Dien Bien Phu, sito in una remota zona nord occidentale, presso il confine con il Laos. Il comando francese vi aveva dislocato 12 battaglioni scelti, appoggiati dall’artiglieria e dall’aviazione, nella speranza di attirare i comunisti in una battaglia decisiva. Il 13 marzo 1954 i nord-vietnamiti lanciarono un attacco alla posizione fortificata di Dien Bien Phu. Nella valle vi erano sette collinette, che non superavano i mille metri di altezza e su tre di esse era stata posizionata l’artiglieria, spazzata via, in breve tempo, dalle truppe comandate da Giap. Il generale francese Navarre, comandante della piazza di Dien Bien Phu, sottovalutò le intenzioni e le risorse di Giap, cosicché i comunisti in breve tempo occuparono le alture, assediarono la guarnigione servendosi dell’artiglieria, che nessuno supponeva che possedessero e che era stata fornita loro dalla Cina tramite la Corea del Nord. I cannoni erano invisibili alle ricognizioni aeree. Nguyen Van Giap aveva dato ordine di «scavare delle vere e proprie cave dentro la montagna: in ogni buco c’era un cannone, quando doveva sparare si portava fuori, tirava e poi si portava subito dentro».
Da quel momento fu chiaro che anche gli altri reparti sarebbero stati spazzati via e sopraffatti. Il governo francese accettò la proposta sovietica di una conferenza di pace a Ginevra nel mese di aprile 1954. L’imminenza dell’incontro stimolò le forze Vietminh ad intensificare gli attacchi e a sedersi al tavolo delle trattative con un risonante successo sul campo di battaglia.
Già dal gennaio 1954 gli Stati Uniti avevano valutato la possibilità di un intervento militare nella guerra di Indocina. Funzionari statunitensi temevano che la guerra francese in Indocina avrebbe portato alla resa il governo di Parigi a Ginevra ed un comitato speciale incaricato di analizzare la questione indocinese raccomandò a metà marzo di continuare la guerra anche senza i francesi. L’amministrazione Eisenhower diede l’impressione di essere favorevole ad un massiccio attacco aereo contro le forze comuniste attorno a Dien Bien Phu e su alcuni campi d’aviazione cinesi, impiegando addirittura anche armi nucleari, se fosse stato necessario. L’ammiraglio Radford, capo dello stato maggiore unificato, propose un’operazione aerea dalle Filippine e dalle portaerei alla fonda ad Okinawa. Il vicepresidente Nixon prospettò la possibilità di un invio di soldati americani, ma il presidente D. Eisenhower, tentennò e cercò la collaborazione britannica.
Il 4 aprile 1954 il presidente americano compì un estremo tentativo affinché l’Inghilterra si unisse a Stati Uniti, Francia e ad altri alleati del Sud-est asiatico. Scrisse a Winston Churchill:
«sono sicuro […] che seguite con il più profondo interesse e con la massima ansietà le notizie quotidiane della valorosa lotta sostenuta dai francesi a Dien bien Phu.[…], temo che i francesi non ce la facciano, nonostante il notevolissimo aiuto in denaro, e in materiale […], se l’Indocina passa in mano ai comunisti, l’ultima conseguenza per la vostra e nostra posizione mondiale strategica […], potrà essere disastrosa e inaccettabile per voi e per me […]. Penso che il modo migliore [di aiutare i francesi sia di costituire] una nuova coalizione […] Ho in mente, in aggiunta ai nostri due paesi, la Francia, gli Stati Associati, l’Australia, la Nuova Zelanda e le Filippine. […]. Mancammo di fermare Hirohito, Mussolini e Hitler per non aver agito uniti ed in tempo. Questo segnò l’inizio di molti anni di vera e propria tragedia e di disperato pericolo. Può essere che le nostre nazioni non abbiano imparato qualcosa da quella lezione?».
(D. D. Eisenhower, Gli anni della Casa Bianca, 1953-1956, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1964, pp. 422-423.)
Dulles volò a Londra per perorare la causa, ma gli inglesi non si fecero coinvolgere, affermando che avrebbero atteso i risultati della conferenza di Ginevra. Il capo di stato maggiore dell’esercito, generale Matthew B. Ridgway, che aveva comandato le forze dell’ONU in Corea, nutriva molti dubbi sul fatto che i bombardamenti aerei potessero invertire il corso della guerra. Alla fine, Dulles dovette capitolare. Gli Stati Uniti non potevano compiere in Indocina atti di belligeranza senza una piena intesa politica con la Francia ed altri paesi. Inoltre il Congresso non era stato coinvolto e si temeva la reazione dell’opinione pubblica che non era stata preparata e stava uscendo da poco dalla guerra in Corea. La decisione di non intervenire è da attribuire unicamente agli Stati Uniti i cui capi di stato maggiore affermarono che «l’Indocina è sprovvista di obiettivi militari determinanti, e dislocare in quella zona forze armate statunitensi più che simboliche costituirebbe una grave diversione delle già limitate disponibilità americane».
La Conferenza di Ginevra
Il pomeriggio del 7 maggio 1954 la bandiera rossa del Vietminh fu issata sul bunker del comando francese di Dien Bien Phu. L’esercito inviato da Parigi e sostenuto militarmente e finanziariamente dagli Stati Uniti era stato sconfitto.
Ora toccava alla politica e il mattino dopo, a Ginevra, nel vecchio edificio della Società delle Nazioni, le delegazioni si riunirono per discutere sul problema indocinese. Dopo una spesa, da parte degli Stati Uniti, di 2,6 milioni di dollari, e aver fornito un armamento colossale alla Francia, gli americani decisero che avrebbero vinto diplomaticamente ciò che era stato perso sul campo di battaglia in Indocina.
Poche conferenze internazionali cominciarono in un’atmosfera d’incertezza come quella di Ginevra. Il presidente Eisenhower escluse pubblicamente un’alternativa militare unilaterale nel sud-est asiatico, qualora le conversazioni di Ginevra fossero naufragate, e il Segretario di Stato Dulles non voleva conferire una patina di legittimità al regime comunista nel Vietnam del Nord, che a sua volta avrebbe esteso la sua influenza su tutta l’area. Da parte francese il primo ministro Bidault affermò di non essere disposto ad accettare un Vietnam diviso e avrebbe trattato solo per un cessate il fuoco generale. Il rappresentante cinese, Chu en-lai, aveva invece due obbiettivi: trovare una soluzione che togliesse agli Stati Uniti ogni pretesto di intervenire nella regione minacciando, in tal modo, la Cina; e scoraggiare la nascita di una grande potenza, anche comunista, presso il proprio confine meridionale. Il rappresentante dei Vietminh, Pham Van Dong, era intransigente: unione del Vietnam e ritiro delle truppe francesi dall’Indocina; chiese inoltre, che i partiti comunisti d’ispirazione Vietminh, Pathet Lao nel Laos, e Liberi Khmer in Cambogia, fossero ufficialmente riconosciuti.
Il parlamento francese, constatando l’impazienza dell’opinione pubblica per l’infruttuosa conferenza, ritirò la fiducia al governo in carica e votò per Pierre Mendès-France che promise, nel suo discorso di insediamento, il 12 giugno 1954, che avrebbe risolto il problema indocinese in trenta giorni, oppure se ne sarebbe andato. I negoziati furono condotti alacremente e segretamente da Chu en-Lai, rappresentante dei comunisti, e dal nuovo primo ministro francese. Dulles minacciò il ritiro della delegazione americana da Ginevra appena seppe degli incontri franco-cinesi.
Mendès-France, incoraggiato dal rappresentante cinese, ipotizzò, l’idea di dividere il Vietnam in due Stati, come la Corea. Il rappresentante Vietminh ricevette l’ordine da Ho chi Minh di accettare la proposta di Chu en-Lai sulla divisione del paese, i cinesi sostenevano che
«unire il Vietnam è possibile solo quando i tempi fossero divenuti maturi […]. L’opinione è di unirli solo con mezzi pacifici, fare questo combattendo significa portare gli americani in Indocina».
Il pomeriggio del 12 luglio 1954, scadenza datasi dal governo di Mendès-France, il ministro degli esteri sovietico, Molotov, convocò una riunione nella sua residenza ginevrina; erano presenti Chu en-Lai per la Cina, Mendès-France per la Francia, Pham van Dong per i Vietminh, Eden ministro degli esteri britannico e lo stesso Molotov. Si raggiunse un compromesso: divisione del paese e consultazioni elettorali.
Il 21 luglio i partecipanti alla Conferenza firmarono una serie di accordi separati che stabilivano una tregua: divisione temporanea e non politica del Vietnam in due zone lungo il 17° parallelo; libere elezioni fissate per l’estate del 1956, per decidere il futuro assetto del Paese (le competenti autorità avrebbero svolto consultazioni su quest’argomento dopo il 20 luglio 1955); ognuno dei due governi doveva permettere a ogni abitante del Vietnam di decidere liberamente in quale zona vivere; nessuna delle due parti doveva riunire l’altra con la forza militare; era proibita la presenza di basi ed eserciti stranieri sul territorio nazionale; il corpo di spedizione francese doveva lasciare il paese entro 300 giorni dalla data della firma dell’accordo; sul rispetto degli accordi avrebbe vigilato un’apposita commissione, l’International Control Commission (ICC), formata dal Canada capitalista, dall’India neutrale, che assumeva anche la presidenza, e dalla Polonia comunista. Gli Stati Uniti presero atto degli accordi, non li firmarono, ma s’impegnarono a rispettarli. Il ministro degli esteri inglese, Eden, giudicò questo comportamento irresponsabile.
Come ricordò nelle sue memorie il presidente Eisenhower, l’accordo raggiunto a Ginevra dai francesi era
«il migliore che si potesse ottenere in quelle condizioni. Portò alla fine di una guerra sanguinosa che incideva gravemente sulle risorse francesi».
Il Vietminh non aveva vinto, ma la sua dittatura comunista era stata riconosciuta; inoltre gli era stato assegnata la parte più popolosa del paese. Ma il nord era anche la zona più povera; infatti, prima degli accordi di Ginevra, nonostante i due raccolti l’anno, dipendeva dall’importazione di riso dal Sud. L’undici agosto 1954, dopo otto anni di guerra, in Vietnam regnava la tregua.
Francesco Cappello